[Ehi amə, da qui in avanti ci saranno un po’ di spoiler. Se ancora non hai giocato a non-binary, lo trovi gratuitamente qui.]
Buondì animalettɜ del pack, qui è QueerWolf che vi scrive. Siamo al secondo devlog, e a questo giro ci occuperemo del narrative design (parole grandi qui oggi per noi piccolettɜ). Iniziamo?
Narrative design e non solo “narrazione”
Sì: in non-binary la parte testuale occupa buona parte del gioco.
Ma un videogioco non è un romanzo e la sua narrazione è qualcosa di esteso, che si intreccia in ogni elemento: il testo è alimentato dalla grafica che rafforza il significato del gameplay che è arricchito dalla musica che si fonde nelle parole usate e via di seguito. Non sono elementi separati ma una rete che si fa forte dei suoi punti di contatto.
Chi scrive narrativa sa che un romanzo è come una maratona: richiede resistenza, ma la sua lunghezza permette di ammortizzare il peso di qualche errore.
Un racconto invece è come giocarsi tutto in un giro di pista, un passo sbagliato e sei spacciatə.
non-binary è stato pensato come un racconto, e quindi doveva essere perfetto (spoiler: non ci siamo riuscitɜ).
Ci siamo sedutɜ una sera a casa di Ascari consapevoli di questa cosa (centrale è stato il supporto di Melina, la dogga di chez Ascari). Ognunə ha messo sul tavolo le sue competenze per mischiarle, metterle in discussione, ribaltarle per decidere la cosa principale: il tema.
Il tema
Quando scrivo narrativa tutto parte dal tema. Devo capire di cosa voglio parlare, ridurre quel concetto a una o due parole minimo. Capire perché è importante parlarne per me, e infine come farlo (spoiler: se vuoi comprendere fino in fondo la natura di un tema, snocciolati tutte le runway della Drag Race. Ho imparato più dalle drag che dai corsi di scrittura).
Siamo partitɜ dal cosa. Ci siamo messɜ a discutere dei limiti della prima versione del gioco (quella della GGJ). Abbiamo abbandonato la frustrazione, che era centrale in quella versione, e abbiamo portato al centro il linguaggio.
Siamo cresciutɜ e viviamo in un mondo in cui il linguaggio manca e che quindi non ci permette di sapere che esistiamo, di capire che ciò che sentiamo va bene. Per farlo, è stato ovvio delimitare il perimetro di gioco attorno alla fase di scoperta di sé, al prima del vedersi realmente.
Dopo tre ore siamo arrivatɜ all’obiettivo: di cosa volevamo parlare? Del linguaggio. Perché? Perché la sua assenza è un problema. Come? Concentrandoci su un percorso di ricreazione e riappropriazione del lessico. Bingo.
Narrazione e grafica
Nella versione della GGJ ci siamo affidate allo stereotipo sociale per far sì che lə giocatricə riconoscesse nell’azzurro e nel rosa qualcosa di genderato. Adesso però dovevamo fare qualcosa di più puntuale.
Siamo arrivate al tavolo sapendo che finale avremmo voluto. E per rendere quel finale forte serviva che tutto ciò che lo precedeva fosse binario in modo impeccabile. Avevamo già scelto di accumulare le parole a lato, e quindi ecco che colorarle ha permesso di rafforzare il valore del rosa e dell’azzurro. Colorare le parole nei testi l’ha rimarcato, aiutando a collegare testo e “wall of text” (letteralmente).
I bullet tematici hanno rafforzato il tutto: ogni bullet riprende un elemento della storia di Pallinə. Alcune cose sono facili da riconoscere (le forbici) altre un po’ meno (abbiamo già detto che ci serve unə graficə?).
A quel punto il passo indietro: un menù che parta da un punto neutro, che metta il bianco al centro di tutto per esprimere una potenzialità totale, qualcosa che non è ancora socialmente condizionato, e palline su palline che cascano perché siamo tuttɜ pallinɜ fino a quando un dottore non arriva e di dice “Uh, hai la patatina, sei femmina e il tuo unico scopo è trovare medici obiettori e partorire con dolore”.
E così: un menù in bianco e poco nero, una lunga fase di gioco dove vieni buttatə subito per strada, unicə giallə tra rosa ed azzurri, un finale in cui finalmente puoi mostrare chi sei. Protettə dalla tua sicurezza, dai tuoi rapporti (Laura o Bunny), dalla comunità (le altre figure non omologate). Scudo che ci piacerebbe avere anche nel mondo reale, perché alla fine queste cose fanno comunque sempre male.
Narrazione e testi
I testi della versione GGJ erano abbastanza “over the top”: portavano a situazioni limite. È stata una soluzione pratica per la mancanza di tempo (e un mio bias), ma non particolarmente utile. Se una storia si concentra su una discriminazione istituzionalizzata ma mostra solo i comportamenti più estremi, finiremo tuttɜ per non sentirci parte del problema, ci autoassolveremo. Il padre e il fratello di Pallino nella prima versione lo umiliano a tavola: sono cose che accadono, ma un mondo queerfobico (e misogino, razzista, abilista) sta in piedi soprattutto grazie a chi resta in silenzio, a chi come Omar pensa di fare il nostro bene continuando a chiederci di non essere noi stessə.
Da qui, il primo problema della ristesura. Una prospettiva più minuta funziona, prende valore, se i piccoli gesti assumono un significato forte. Perché questo accada, la soluzione migliore è concentrarsi sui rapporti tra personaggɜ. Ma per far sì che chi gioca si senta a loro legatə, serve un po’ di spazio, quel minimo di storia che faccia capire che sì, quel rapporto conta. E avevo (ed ho tutt’ora) la para che troppo testo annoi.
Quando poi abbiamo introdotto la meccanica della scelta testuale, questo discorso è diventato fondamentale: una scelta prende valore dal contesto, e il contesto deve essere definito, chiaro.
Lə giocatricə deve avere la possibilità di esprimere sé stessə attraverso le scelte, ma se il contesto non è importante, quell’espressione è priva di significato. E non solo: lə giocatricə deve sentire quanto è importante Chloe per Pallina, o allontanarsene non significherà nulla, sarà solo un click sulla tastiera.
Conseguenza ovvia: i rapporti sono finiti al centro della storia, e rapporti vuol dire personaggɜ, ed era necessario riuscire a creare personaggɜ non piattɜ. Tempo a disposizione: tre settimane per fare tutto (perché poi: revisione, correzione, inserimento in Ink, traduzione). Halp.
Bonus in tutto questo: avevamo deciso che fosse importante far collegare le due storie. E Pallino e Pallina dovevano essere molto differenti, per evitare che qualcunə ignarə potesse pensare che l’essere non binariə sia una cosa che riguarda solo un tipo molto specifico di persona.
La raccolta delle testimonianze e delle esperienze (raga che avete parlato con noi: non saprete mai quanto vi siamo gratɜ) è stata fondamentale per capire su quali aspetti mettere il focus, su come caratterizzare Pallino, Pallina, ma anche Laura, Omar, Chloe, la povera Marika o Lorenzo.
Dovevamo dimostrare che puoi essere anche la persona più consapevole del mondo delle dinamiche del patriarcato (Pallina) ma puoi finire comunque in una relazione che non ti permette di essere te stessa. Che di contro puoi essere un tatone con l’istinto attivista di un criceto morto (Pallino) e comunque trovare la tua strada. E che in entrambi i casi non te ne puoi venire fuori da solə.
Avevamo deciso assieme che volevamo una storia positiva, sempre, perché siamo stancɜ delle storie che si basano sul dolore. Anche per questo era importante mettere al centro una cosa di cui si parla poco, che è l’euforia di genere. Quando parliamo di storie trans/enby sembra che il dramma della disforia sia al centro di ogni vita, che tu sia trans/enby solo per la disforia. Ma anche no: l’euforia è una bomba, quella doveva essere messa in evidenza (e Ascari ovviamente felicio di questo).
Ritorno un momento ancora sulle scelte. Sono importantissime anche le scelte che non puoi fare. Quando Jay ha giocato in streaming qualche giorno fa, a un certo punto durante il terzo atto di Pallina voleva dare supporto a Pallino. Il problema è che in quel momento Pallina è in piena negazione. È una storia che abbiamo visto ripetersi nelle chiacchierate fatte durante la fase di ristesura (e che mi son vistə anche addosso): arriva spesso un momento in cui guardi male le altre persone non cis perché hai paura di cosa puoi vedere in te. Pallina lo ammetterà poi: non poteva accettare di aiutare Pallino, perché non poteva accettare sé stessa. Una delle prime lezioni imparate da una gigante come Emily Short è stata: quando crei un gioco, contano le scelte che dai, ma contano ancora di più le scelte che non dai.
Con tutta questa roba in mano, finalmente sapevamo cosa raccontare.
Conclusioni
Più ragioniamo sui giochi che abbiamo amato, su quelli che continuiamo a prendere qui come modello, più ci rendiamo conto che una visione d’insieme della narrazione è un elemento centrale nella costruzione di quei titoli.
Ma è una cosa supercomplessa. Super. Già il blog di Emily Short può mostrare nella sua estensione infinita di post e rimandi quanto sia aperto e in divenire il tema. E questa complessità è una cosa bella: inserirsi in un dibattito vuol dire poter sperimentare, fare anche cagate per trovare nuovi limiti o spezzare confini.
Un commento personale è: se ci stai leggendo e fino ad ora hai scritto “solo” narrativa, prova a tuffarti. Partecipa a una Game Jam, trova amicɜ con cui provare. Cedere l’agency sulla narrazione potrà sembrarti una cosa difficile e spaventosa, ma ti assicuro che è una bomba: non c’è cosa più bella di scrivere una storia con una persona che ancora non hai conosciuto.